Intervista Aldo Aledda su Unione Sarda

Intervista Aldo Aledda su Unione Sarda

Intervista ad Aldo Aledda, uno dei massimi esperti sugli esodi che hanno segnato la storia della Sardegna, soprattutto dal secondo Dopoguerra

«Dietro la decisione di lasciare la propria terra non ci sono solo storie di dolore e distacco. Spesso si tratta di cicli che possono avere alla base anche un sostrato di benessere, di certo sono inarrestabili». Aldo Aledda lo dice con la calma di chi i fenomeni migratori li studia da oltre trent’anni, da quando, funzionario in Regione alle prime armi, decise di finire in quel preciso ufficio che seguiva da vicino i sardi andati via. Un’esperienza sul campo che col tempo si è tradotta anche nella possibilità di smontare, attraverso la conoscenza, più di qualche luogo comune sugli spostamenti dal proprio luogo d’origine. Aledda è l’autore di “Sardi in fuga in Italia e dell’Italia”, un saggio di 265 pagine pubblicato quest’anno e che può essere considerato l’aggiornamento del primo volume uscito nel 1991 col titolo “Sardi nel mondo”. Aledda, non più in Regione, è presidente del Cedise, il Centro europeo che cura e veicola all’estero l’informazione sulla nostra Isola. È anche coordinatore del “Comitato 11 ottobre”, organismo in pianta stabile a Roma che si occupa di partenze e di ritorni.

Emigrazione sarda: l’ultima fotografia qual è?

«In realtà si possono avere più fotografie. Parliamo di un fenomeno complesso che non si focalizza solo su chi anela a rientrare, come spesso si dice, ma riguarda pure coloro che con la propria terra hanno tagliato i ponti. Uno dei miti da sfatare è che lasciare la Sardegna si traduca necessariamente in sofferenza. Questo, paradossalmente, non succede tra gli emigrati di prima generazione che possono avere sì nostalgia dell’Isola, ma non voglia di ritornare. Dinamica diversa per i loro figli o nipoti che da emigrati di seconda e terza generazione sviluppano, rispetto a genitori e nonni, una maggiore curiosità nei confronti del Paese d’origine».

Nella scala del dolore l’atteggiamento degli emigrati di prima generazione come si colloca?

«Chi in una famiglia “inaugura” il ciclo migratorio, conserva sempre le ragioni che hanno portato alla partenza. E non si tratta necessariamente di un obbligo: una componente dell’esodo è stata la voglia di riscatto, un’altra ha coinciso con l’affrancamento, con il bisogno di costruirsi un futuro autonomo. Seconde e terze generazioni, invece, non si pongono nemmeno il problema dell’appartenenza: si sentono cittadini del paese nel quale sono arrivati i genitori o i nonni. Si pensi ai terroristi jihadisti che hanno commesso gli attentati in Francia negli anni scorsi: erano giovani francesi a tutti gli effetti, ma la curiosità verso la terra d’origine li ha spinti ad abbracciare la causa della lotta armata». 

Con la quarta generazione di emigrati cosa succede?

«Di norma, si perde tutto. Ma è necessario fare dei distinguo. L’America, per esempio, è una realtà fortemente melting pot e come tale ingloba rapidamente gli emigrati. Cito l’ex presidente Trump: ha antenati tedeschi per parte di padre e scozzesi per parte di madre. Tutti e quattro i suoi nonni nacquero in Europa. Ma lui è americanissimo. Ecco, la regola è questa: in contesti dove l’assimilazione socio-culturale è rapida, sparisce in fretta anche il desiderio di avere contatti con la terra d’origine. Per contro, nelle realtà dove il bollino dell’immigrato resta più a lungo, è forte la voglia di conoscere il luogo di partenza della famiglia».

Applicato ai sardi questo ragionamento come si traduce?

«Come “Comitato 11 ottobre” stiamo facendo un ragionamento su scala nazionale attraverso la proposta di legge per l’istituzione del visto permanente. A breve alla Camera dei deputati presenteremo il testo normativo, il cui obiettivo è facilitare il ritorno degli italiani emigrati all’estero consegnando loro un lasciapassare senza limiti. Oggi il nipote di un sardo nato in Argentina non ha il passaporto italiano. E se anche lo ottiene e decide di mollare il posto dove è nato, non è detto che torni in Sardegna o in Italia. Magari sceglie l’Europa ma non il nostro Paese. Col visto permanente, invece, si è vincolati a rientrare proprio da noi. Così facendo quei concittadini non li perdiamo. Anzi, possiamo ritrovarli».

Crede che la Sardegna e l’Italia vadano ripopolate?

«In un’epoca in cui la nostra regione e il nostro Paese perdono abitanti e la popolazione residente è sempre più vecchia, il visto permanente può essere una delle misure da mettere in campo per arginare lo spopolamento. Certo: siamo ben consapevoli che un giovane di origini italiane con un lavoro stabile in Svizzera, difficilmente pensa di ritornare. Ma in Argentina e più in generale nell’America Latina le condizioni economiche e di vita sono difficili: si tratta di Paesi in crisi. Ecco: in questi casi trasferirsi in Italia può essere un’opportunità vantaggiosa e conveniente. In Venezuela, per citare un altro esempio, due milioni di cittadini hanno origini italiane».

Nel suo libro scrive che la Sardegna è quasi assente dai grandi flussi migratori dell’Ottocento e del Novecento, anche se chi allora usciva dall’Italia veniva registrato come “sardo” dalle dogane straniere.

«Sì, l’emigrazione dalla nostra Isola conosce numeri importanti nel Secondo dopoguerra, con l’esodo verso la Penisola o l’estero di quasi metà della popolazione. Ai tempi del Regno di Sardegna, invece, i sardi indicati nei documenti delle dogane estere non erano partiti dalla nostra Isola ma da altre regioni. Prima degli anni Cinquanta, si registra ancora un altro fenomeno: la nostra emigrazione ha riguardato anche le élite: si pensi a Emilio Lussu o alla stessa Grazia Deledda, che spesso stava a Roma. Lo stesso si può dire del tenore cagliaritano Mario De Candia, avversario della monarchia sabauda e andato in esilio volontario. E poi va sfatata una convinzione».

Quale?

«Non è affatto vero che tutti i migranti sono poveri. Non vale oggi e non valeva nemmeno un tempo. Oggi gli africani che prendono le rotte del mare sono spesso laureati. Quindi nel loro Paese non appartengono alle classi sociali più basse. Infatti parlano il francese, altra caratteristica che li distingue dai contesti più disagiati. Chi in Africa vive in povertà assoluta, al massimo si muove verso le zone vicine a casa, ma non lascia il Continente. La stessa dinamica ha segnato l’emigrazione italiana dall’Ottocento in avanti: i primi italiani a partire furono i genovesi, in parte scontenti di essere annessi al Regno di Sardegna, in parte mossi dalla propria vocazione di navigatori, come poi si rivelarono i carlofortini nell’ambito dei flussi migratori sardi. Discorso simile coi piemontesi che hanno attraversato l’oceano sollecitati da Cavour, il quale riteneva gli esodi utili a dare un impulso al commercio. Non possono essere ascritti alle classi sociali più basse nemmeno i lombardi e i veneti che hanno cercato fortuna fuori dall’Italia: anche la loro base economica di partenza non era delle peggiori. Anzi, la spinta a partire era data proprio dalla voglia di inseguire un grosso benessere. C’erano delle ambizioni dietro gli esodi, non la semplice sopravvivenza. Non a caso i primi emigrati italiani erano tutti del Nord. Dal Meridione si sono mossi molto dopo. La condizione di povertà di tutti gli emigrati è un pregiudizio bello e buono. L’America, del resto, come sarebbe potuta diventare la prima nazione del mondo se avesse ospitato solo analfabeti? Dall’Italia verso gli Usa sono partiti artigiani che fuori hanno messo su aziende. Lo stesso hanno fatto i contadini. Questo spiega perché tra Otto e Novecento i sardi sono partiti in misura minore rispetto al Secondo dopoguerra: eravamo una regione estremamente povera. I grossi fenomeni migratori dall’Isola coincidono con gli inizi dell’industrializzazione. Le teorie lavoristiche non bastano a spiegare il “caso Sardegna”».

Cos’altro serve?

«Gli aspetti sociali hanno contato quanto quelli economici. Dal Nuorese, tanti emigrati partirono perché non tutti i giovani di allora accettavano di abbracciare la società agropastorale. Da quel rifiuto è nato l’esodo verso la Germania. Anche tanti minatori hanno fatto le valigie verso la Francia, perché col declino del mercato estrattivo l’alternativa sarebbe stata una vita in campagna».

Come è arrivato a questa conclusione?

«Studi e interviste. La Sardegna di quel tempo era troppo patriarcale e paternalista. Un emigrato in Australia mi raccontò di aver lasciato l’Isola perché suo padre, titolare di un’azienda agricola, rifiutava ogni sua proposta progettuale. La famiglia che si imponeva contro la propria vocazione ha fatto da motore a tante storie di esodo».

La rappresentazione dell’emigrato del Sud è con la valigia di cartone.

«Solo perché non ce n’erano altre. Non solo: è un classico che il migrante arrivi senza soldi nel Paese dove approda. Si pensi agli africani: partono dal cuore del Sahara con ottomila dollari e non hanno un centesimo quando sbarcano qui da noi. Lo stesso successe agli ebrei, anche ai più benestanti, quando scapparono in America dalla Germania nazista. Per citare nuovamente Lussu, malgrado provenisse da una famiglia benestante di Armungia, fu costretto a vivere di stenti esule a Parigi, tra pasti frugali nella modesta stanza in cui era alloggiato ed estenuanti camminate a piedi per raggiungere i luoghi degli appuntamenti. Aveva la sola soddisfazione culturale di divenire un grande conoscitore del Museo del Louvre, perché l’ingresso non si pagava».

Le famiglie rimaste nei luoghi d’origine che ruolo avevano negli esodi?

«Dietro l’emigrato che andava via c’era sempre la partecipazione delle famiglie. La canzone “Mamma mia dammi 100 lire che in America voglio andar” è la dimostrazione: per pagare il viaggio si facevano le collette tra parenti. E il primo che arrivava in terra straniera faceva da apripista. Per prendere il Titanic, servivano tra i 200 e 300 dollari. Le migrazioni sono spesso catene familiari o territoriali. Si fa il passaparola tra parenti e con gli amici degli amici. Il mancato rispetto di questa regola non scritta ha creato qualche dissidio anche tra i circoli dei sardi, la cui struttura dirigenziale si rivela spesso fedele non solo alla provenienza geografica ma anche a quella familiare: a seconda del paese da cui si arrivava, non si era graditi e non si veniva accolti e introdotti».

Qual è la geografia dell’emigrazione italiana?

«I settentrionali sono andati in gran parte verso il Sud America, i meridionali hanno seguito in maggioranza la rotta del Nord America. Tutte le migrazioni si poggiano sui legami. Si pensi alla tragedia di Cutro: in Italia, per riconoscere le vittime recuperate, sono venuti tanti stranieri che vivono in Germania o nel Nord Europa. Erano parenti, a cui si sarebbero ricongiunti i nuovi arrivati». 

Per lo Stato che peso economico hanno avuto gli esodi massivi?

«Le rimesse degli emigrati sono state una voce importante del bilancio italiano sino alla Seconda repubblica. Parliamo degli anni Novanta. In una recente Conferenza dei circoli sardi in Svizzera, è emerso che una volta tornati nell’Isola gli ex emigrati si mantengono con le pensioni estere per un valore di 8 milioni di euro. E come ha fatto notare Nando Ceruso, sindacalista ed esperto di previdenza, nonché dirigente della Federazioni dei circoli sardi e originario di Oschiri, se lo Stato italiano facesse una politica di attrazione degli emigrati, si vedrebbe riversare sull’economica nazionale una nuova capacità di spesa pari a due miliardi di euro».

Nel suo libro pone un quesito e si chiede se nei confronti della propria terra si siano comportati meglio quelli rimasti o quanti sono andati via. A che conclusione è arrivato?

«Io ho sempre tifato per chi è uscito. Per chi è partito. Perché si è messo in gioco. Quelli che stanno fermi, per quanto possano leggere libri, avranno sempre una visione della vita parziale. Un differente livello di apprendimento». 

Applichiamo alla Sardegna il visto permanente: cosa succederebbe?

«Oggi ci sono nel mondo circa due milioni di persone che hanno origini sarde. O che si identificano in qualche modo con la nostra Isola. Lo stesso dato su scala nazionale vale ottanta milioni di cittadini. La portata del fenomeno è ben chiara a Mattarella che infatti si rivolge spesso agli italiani nel mondo». 

Questi dati quando sono stati raccolti?

«Sono proiezioni sui movimenti migratori degli ultimi cento anni. Si tratta di numeri ottenuti incrociando i dati Istat, le iscrizioni all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) e le registrazioni nei Paesi di accoglienza».

Esiste il dato su quanti sardi hanno lasciato l’Isola nell’ultimo secolo?

«Stando alle ricerche fatte dall’Università di Cagliari, circa 800mila sardi sono partiti tra la fine del XIX secolo e il Secondo Dopoguerra, con quest’ultimo periodo che ha registrato il grosso delle uscite, pari a circa 550mila. Da queste cifre sono escluse le partenze del nuovo millennio, ancora in corso di rilevazione».

Quanti sono tornati indietro?

«Un terzo è tornato subito. Si tratta di un dato comune a tutta l’emigrazione italiana. Ma con alcuni picchi: dalla Germania, per esempio, andò subito via la metà dei sardi che partirono». 

Per “subito” cosa intende?

«Immediatamente».

Dove sono andati i sardi?

«Posto che la gran parte dei sardi è partita dalle aree più periferiche dell’Isola, vi è stata una accentuata tendenza a dividersi le zone del mondo, quasi per appartenenza territoriale. Così da Santu Lussurgiu e Pozzomaggiore l’esodo si è mosso verso l’Australia. Anche con la creazione di piccole Little Sardinia, come a Melbourne, dove in un quartiere viveva la signora Fronteddu che non ha mai smesso di parlare in sardo e non ha mai imparato una sola parola di inglese. Dalla Trexenta, buona parte dei migranti si è recata nell’Ontario, in Canada, ma da Dorgali hanno fatto rotta verso Vancouver. Da Cagliari e Ozieri, invece, i flussi migratori si sono diretti in larga misura in l’Argentina, creando anche qualche piccola leggenda. Per esempio su Perón, da alcuni ritenuto sardo perché così si sarebbe dichiarato in comizio. È certo invece che si era circondato di qualche collaboratore originario della nostra Isola, come il sarto Giosuè Castangia o il legale Carlos Alberto Falchi, la cui famiglia era di Alghero». 

La nuova immigrazione dei laureati sardi come va letta?

«Nell’unico modo possibile: i nostri giovani sono giustamente ambiziosi e cercano il lavoro dove vengono pagati e trattati meglio e possono anche coronare i propri sogni. E non si tratta solo di laureati, ma anche di operai: allora può capitare che da un ristorante italiano di Francoforte un giovane sardo sia costretto a scappare perché sfruttato e pagato in nero, mentre in un ristorante tedesco viene assunto con un regolare contratto. E lo dico con la consapevolezza di chi appartiene a quella generazione che sta lasciando l’osso ai propri figli: debito pubblico alle stelle e ambiente dissestato».

Come si gestisce la nostalgia di una migrazione?

«Tornando periodicamente. Le estati in Sardegna hanno segnato la vita di tanti emigrati sardi in Germania, Francia e Olanda. Con la chiusura delle fabbriche, si raggiungeva l’Isola in macchina. Poi si tornava a casa con le scorte di cibo sardo. Ma sui giovani bisogna smetterla di fare discorsi paternalistici reclamando il loro ritorno a casa, a ogni costo. Primo perché si può essere felici anche lontano dalla Sardegna. Secondo perché ci vuole comunque del tempo prima di sviluppare il desiderio di tornare. Terzo, non ci sono regole che valgono per tutti. Paolo Savana e Gavino Sanna sono stati due sardi innovatori che hanno raggiunto la notorietà lasciando l’Isola».

Dove sta nel mondo la comunità sarda più grande?

«Ci sono comunità numerose in Argentina, Germania, Svizzera e Francia. In Italia, invece, il maggior numero di emigrati sardi si conta a Roma, ma non sono pochi nemmeno in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna».

La frase più bella che le ha detto un emigrato sardo?

«Un vecchio minatore nei Paesi Bassi mi disse che lui si rapportava con i belgi in maniera autorevole perché proveniva da una terra con una cultura millenaria».

Nella parte brutta dell’immigrazione la discriminazione è in cima alla lista.

«Innegabile. Gli immigrati italiani sono stati a lungo accusati, dall’opinione pubblica locale e talvolta anche dai sindacati, di accettare condizioni di lavoro indecenti, creando un danno agli stessi lavoratori del posto».

Soprattutto in passato, a ogni campagna elettorale c’era il regalino per i circoli dei sardi. Oggi che aria tira?

«La Sardegna si è sempre mostrata più attenta verso gli emigrati, con uno stanziamento annuale di due milioni. Il doppio di Friuli e Trentino, le seconda e terza regione più virtuosa. La nostra Isola è stata anche una delle prime a legiferare: si pensi all’assistenza garantita sul rientro delle salme o ai sussidi in coincidenza con le elezioni. Questa fase, però, si è conclusa negli anni Ottanta ed è stata seguita dalla stagione in cui la Regione chiedeva ai suoi emigrati dei ritorni di immagine attraverso la diffusione della cultura e dei prodotti tipici. Adesso manca del tutto una strategia: la politica deve trovare un nuovo terreno comune con gli emigrati. Partendo dalla consapevolezza che l’esodo dei giovani non si ferma. È ora di prenderne atto». © Riproduzione riservata Alessandra Carta

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